Skip to main content

Politiche di sviluppo e autonomia differenziata

Edizione 2024

Position paper a cura di Claudio De Vincenti

Premessa

Dall’istituzione delle Regioni nel 1970, passando per la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, i difetti del regionalismo italiano sono emersi con sempre maggiore evidenza. Possiamo riassumerli nei termini seguenti: 

  • attribuzione di maggiori competenze di spesa senza una corrispondente attribuzione di responsabilità di entrata, con l’effetto di innescare un continuo rivendicazionismo finanziario nei confronti dello Stato e di non responsabilizzare le giunte regionali nei confronti delle comunità amministrate; i tentativi della seconda metà degli anni Novanta di introdurre con l’istituzione dell’Irap e dell’addizionale regionale all’Irpef un minimo di responsabilità di entrata sono andati in crisi prima con il depotenziamento dell’Irap e poi con il restringimento della base imponibile dell’addizionale attraverso il regime forfettario per i lavoratori autonomi; oggi la somma di Irap residua e addizionale Irpef copre non più del 25% della spesa sanitaria delle Regioni, il ruolo preponderante lo gioca la compartecipazione all’Iva che è nei fatti equivalente a un trasferimento dal bilancio dello Stato, essendo determinata ogni anno a copertura delle spese; né la situazione è cambiata sostanzialmente dopo la Legge delega sul federalismo fiscale, la n. 42 del 2009, in parte perché comunque anche in quella legge le compartecipazioni erano la voce di entrata prevalente e in parte per le difficoltà attuative;
  • attribuzione – da parte del nuovo Titolo V attraverso le cosiddette materie di legislazione concorrente – di potestà legislativa in materie che hanno esternalità nonché economie di scala di rilevanza nazionale, come l’energia, i trasporti nazionali, l’istruzione, le telecomunicazioni, l’ambiente, la tutela e sicurezza del lavoro, il commercio con l’estero; ne è derivata una conflittualità permanente tra livelli di governo – in ispecie tramite contenziosi davanti alla Corte Costituzionale – che sia al Nord che al Sud ha paralizzato i processi decisionali. 

Su questo assetto istituzionale multilivello contraddittorio e deresponsabilizzante si inserisce oggi il disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata.

Le novità del DDL Calderoli come uscito dal Senato

Rispetto alla versione iniziale, il testo licenziato dal Senato presenta alcune significative modifiche e integrazioni. Le più importanti sono quelle che cercano di tener conto di alcune delle critiche mosse al testo di partenza, in particolare: alla possibilità di devolvere in blocco 23 materie, ossia tutte le concorrenti più le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente; alla mera ricognizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), invece della definizione dell’insieme dei Lep per tutte le materie  che coinvolgono diritti civili e sociali e delle loro fonti di finanziamento; all’assenza di norme che consentano di evitare il formarsi di avanzi di bilancio presso le Regioni con più alta dinamica delle basi imponibili delle compartecipazioni a scapito degli equilibri finanziari dello Stato e delle altre Regioni. 

Così, il testo uscito dal Senato prevede ora:

  • il potere in capo al Presidente del Consiglio di limitare solo ad alcune materie l’oggetto del negoziato che deve portare all’intesa tra Stato e Regione richiedente, al fine di tutelare l’unità giuridica o economica della Repubblica (art. 2, comma 2).
  • la delega al governo ad adottare entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge uno o più decreti legislativi che individuino i Lep in tutte le materie trasferibili alle Regioni nonché le risorse necessarie a garantirne l’erogazione in ciascuna Regione (art. 3);
  • il monitoraggio annuale da parte di ciascuna Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie locali dell’andamento del fabbisogno di spesa della Regione e del gettito dei tributi compartecipati cosicché, ove si verifichi uno scostamento, il Ministro dell’economia e delle finanze possa adottare le conseguenti variazioni nelle aliquote di compartecipazione necessarie a riallineare il gettito al fabbisogno di spesa (art. 8, comma 2).

Un commento critico

Le modifiche introdotte dal Senato sono sufficienti a rispondere alle critiche che le hanno stimolate? A una attenta valutazione, noi crediamo di no. Vediamole una per una:

  • del tutto inadeguata allo scopo di salvaguardare l’unità giuridica o economica della Repubblica appare la disposizione che affida a una decisione del Presidente del Consiglio pro-tempore la delimitazione delle materie da ammettere di volta in volta alla potestà legislativa esclusiva di una Regione. Stiamo parlando di materie fondamentali per la tenuta stessa del Paese, come le grandi reti infrastrutturali di trasporto o quelle dell’energia o quelle di telecomunicazione o come la tutela della salute o quella dell’ambiente e dei beni culturali: temi di rilevanza nazionale, decisivi per le prospettive di crescita economica e sociale dell’insieme del Paese, temi sui quali una potestà esclusiva regionale avrebbe implicazioni gravi in termini di disarticolazione del tessuto unitario, di veti contrapposti e di blocco dello sviluppo economico e sociale, con implicazioni negative per l’intera collettività nazionale (si pensi a cosa potrebbe succedere alle forniture di gas per le Regioni del Centro-Nord se, oggi che il gas proviene principalmente da Sud, vi fosse un potere di veto in capo alle Regioni di ingresso; o cosa potrebbe succedere alla tenuta del sistema elettrico nazionale se le Regioni a più alta generazione da rinnovabili avessero il potere di limitare la produzione di elettricità sui loro territori a quanto strettamente necessario a soddisfare i loro fabbisogni regionali); 
  • i Lep che saranno oggetto dei decreti legislativi da varare nei 24 mesi successivi all’entrata in vigore della legge sono quelli riferiti alle sole materie trasferibili, laddove i Lep da garantire su tutto il territorio nazionale secondo la Costituzione fanno riferimento all’insieme dei diritti civili e sociali; se si definiscono i Lep solo per un loro sottoinsieme e si individuano – ammesso e non concesso che ci si riesca – le risorse necessarie a soddisfarli in modo paritario in tutte le Regioni, resta il rischio che altri Lep, non corrispondenti alle funzioni trasferibili e che saranno definiti successivamente, restino sottofinanziati; il fatto è che l’esercizio di finanza pubblica consistente nell’individuare le risorse necessarie non può che essere un esercizio unitario e, ove si constati che alcuni Lep resterebbero sottofinanziati, occorre ridurre il finanziamento ai Lep trasferibili e quindi anche rivederne il livello, che quindi non può essere stabilito prima di aver completato il processo di valutazione di tutti i Lep; è un esercizio di finanza pubblica essenziale per i cittadini italiani, in quasiasi Regione risiedano, perché il sottofinanziamento dei Lep non trasferibili riguarda tutti (si pensi, per limitarci a due soli esempi, ai diritti civili e sociali in materia di previdenza e di ammortizzatori sociali);
  • ma c’è di più: il testo uscito dal Senato prevede che comunque, fino a decreti legislativi adottati, ai fini della determinazione dei Lep continuino ad applicarsi (art. 3, comma 9) le disposizioni della Legge di bilancio per il 2023 e che i Lep così definiti e finanziati restino validi (art. 3, comma 10) anche dopo l’adozione dei decreti legislativi; questo significa che le intese con le Regioni possono essere definite in base alla ricognizione dei Lep come oggi prevista dalla Legge di bilancio, senza attendere i decreti delegati, e significa che il loro finanziamento nelle Regioni delle intese – a cominciare da Lombardia e Veneto – avverrà in base alla spesa storica, cristallizzando così le risorse a loro disposizione senza garanzia che i medesimi Lep siano finanziati in ugual misura nelle altre Regioni;
  • la stessa previsione circa il riallineamento tra gettito dei tributi compartecipati e fabbisogno regionale, se riduce il pericolo di avanzi cumulati in alcune regioni e disavanzi cumulati in altre, non evita che alla fine si avrà semplicemente il consolidamento della spesa storica;
  • né quella previsione tocca uno dei difetti di fondo del DDL, quello di prevedere che le funzioni trasferite siano coperte con compartecipazioni al gettito dei tributi erariali, che sono nei fatti equivalenti a forme di trasferimento dal bilancio statale, con tutte le conseguenze deresponsabilizzanti che da ciò derivano sui comportamenti regionali, al Nord come al Sud.

In conclusione, nella sua versione attuale il DDL Calderoli non risponde alle obiezioni che gli sono state mosse e rischia di determinare una disarticolazione del tessuto unitario del Paese, disarticolazione che non tanto penalizza il Sud per avvantaggiare il Nord quanto penalizza sia il Sud che il Nord, o per lo meno i cittadini, i lavoratori, le imprese del Sud e del Nord.

Uscire dal vicolo cieco

Il problema è che il difetto è all’origine: il disegno di legge Calderoli pretende di estendere l’autonomia regionale e di differenziarla a partire da un assetto istituzionale multilivello in sé contraddittorio e deresponsabilizzante, con l’effetto di peggiorarlo ulteriormente evidenziandone le conseguenze estreme e destabilizzanti. In queste condizioni è sbagliato insistere sulla strada intrapresa, essa è sostanzialmente un vicolo cieco politico e istituzionale.

Serve allora un colpo d’ala che consenta di uscirne: lavorare su una riforma della riforma del Titolo V che superi gli errori di quest’ultimo e la debolezza dell’impianto istituzionale che ha presieduto alla stessa nascita delle Regioni nel 1970.

Si tratta di operare una revisione complessiva del rapporto Stato-Regioni-Autonomie locali che consenta di ritrovare efficienza, efficacia e responsabilità delle scelte a tutti i livelli di governo, ridefinendone le competenze e le risorse. La chiave di volta sta nel combinare correttamente principio di sussidiarietà, valutazione delle esternalità inerenti alle diverse materie, dimensione delle economie di scala dei processi amministrativi e produttivi necessari ad assicurare la fornitura dei servizi ai cittadini:

  • ogni livello di governo deve essere chiamato a gestire in autonomia solo le materie per le quali le esternalità si esauriscono nei limiti del suo ambito territoriale e compatibilmente con la dimensione minima efficiente come definita dalla tecnologia produttiva del servizio o dell’infrastruttura corrispondente;
  • all’aumentare della dimensione delle esternalità prodotte e/o della scala minima efficiente di produzione è necessario che la responsabilità di assicurare un servizio o una infrastruttura sia assunta dal livello di governo più elevato.

La riforma del Titolo V di cui c’è bisogno consiste allora nel:

  • superare le potestà legislative concorrenti, distinguendo – alla luce della combinazione dei criteri di sussidiarietà, esternalità ed economie di scala – tra la potestà legislativa dello Stato nonché le sue competenze amministrative-gestionali, da una parte, la potestà legislativa nonché le competenze amministrative-gestionali delle Regioni, dall’altra, e le competenze dei Comuni, dall’altra ancora;
  • ricondurre alla potestà legislativa dello Stato tutto ciò che riveste esternalità e/o economie di scala di rilevanza nazionale, come l’energia, i trasporti nazionali, l’istruzione, la sanità, le telecomunicazioni, l’ambiente, la tutela e sicurezza del lavoro, il commercio con l’estero;
  • nelle materie di potestà legislativa dello Stato, affidare alle Regioni ove opportuno (per esempio in sanità) compiti amministrativi di programmazione e organizzazione dei servizi e valorizzare il ruolo amministrativo dei Comuni;
  • prevedere in capo allo Stato il potere di emanare disposizioni generali e comuni vincolanti nelle materie di potestà legislativa e di competenza amministrativa regionale; 
  • realizzare, nei limiti dei principi di coordinamento della finanza pubblica, una autonomia di entrata delle Regioni e dei Comuni che configuri la loro responsabilizzazione nella copertura delle spese di loro competenza;
  • definire i Lep su tutte le materie che toccano i diritti civili e sociali in relazione alle compatibilità di finanza pubblica attuali e prospettiche nell’ambito di un orizzonte di programmazione ragionevole; nelle Regioni dove i Lep non sono oggi assicurati, prevedere un percorso di avvicinamento tramite obiettivi di servizio definiti per ogni Regione e per ogni Comune e il loro finanziamento tramite fondo perequativo con vincolo di destinazione (altrimenti le risorse potrebbero non essere realmente utilizzate per rimontare il gap nei servizi in cui vi è divario) e tiraggio sulle risorse solo in corrispondenza della realizzazione degli obiettivi;
  • raccordo tra Lep e obiettivi di servizio definiti sull’orizzonte di programmazione e gli investimenti nelle relative materie previsti dai Fondi strutturali europei e dal Fondo sviluppo e coesione (tenendo conto naturalmente che questi fondi devono finanziare anche interventi di sviluppo economico non direttamente riferibili ai diritti civili e sociali); si potrebbe prevedere per il conseguimento degli obiettivi di servizio tramite fondo perequativo lo stesso orizzonte di programmazione dei fondi di coesione.